Non avere fiducia sembra essere il trend del nuovo millennio. Ma è davvero così?
Potete verificarlo voi stessi improvvisando un mini esperimento
sociale: potreste chiedere a uno sconosciuto di prestarvi il cellulare per fare
una telefonata o a un vostro amico di darvi i suoi appunti. In entrambi i casi
vi ritroverete con il 50% di possibilità di ricevere un assenso o un rifiuto (impacchettato
con credibilissime scuse).
Fetchenhauer e Dunning (2009), hanno dimostrato che le persone sono inclini a
fidarsi, in egual misura, troppo o troppo poco, ma nel nostro caso, in una
società dove viene acclamato il più forte e denigrato il più debole, preferiamo
affermare di non fidarci di nessuno. Perché in qualche modo questo ci fa
sentire protetti.
Quando iniziamo una relazione sentimentale cerchiamo sempre di proteggerci
dalle eventuali delusioni che se arrivano ci trovano pronti a dire: “Me
l’aspettavo, sapevo che non avrei dovuto fidarmi”.
Anche se cerchiamo di limitare le possibilità di sofferenza è inevitabile che
quel solidissimo muro, che abbiamo costruito con tanta cura negli anni, inizi a
perdere compattezza quando incontriamo qualcuno che, tenendoci per mano, ci
dice che possiamo fidarci. E a quel punto cosa facciamo? Ci fidiamo o non ci fidiamo?
Non possiamo saperlo con esattezza, ma di
certo possiamo trarre alcune conclusioni.
Platone, all’interno del Fedone, parlava di fiducia nel genere umano e della sua mancanza: “La misantropia nasce quando si è riposta eccessiva fiducia in qualcuno, senza conoscerlo bene, ritenendolo amico leale, sincero, fedele, mentre poi, a poco a poco, si scopre che è malvagio e infido, un essere del tutto diverso. Quando questa esperienza si ripete più volte, specie con quelli che stimavamo più fidati e più amici, si finisce, dopo tante delusioni, con l’odiare tutti e col credere che in nessun uomo vi sia qualcosa di buono.”
Questo accade, secondo Beck, perché tendiamo ad applicare schemi disfunzionali che ci portano a generalizzare le esperienze passate e ad interpretare le situazioni nuove come se sapessimo già come andranno a finire. Queste distorsioni cognitive sono automatiche e spesso difficili da scacciare e possono derivare da credenze apprese in passato (Melli, 2015).
Durante la nostra infanzia, infatti, abbiamo
imparato che se qualcuno si comporta bene con noi continuerà a farlo e al
contrario chi non lo fa continuerà a deluderci.
Come scrive Bowlby, chi ha sperimentato un attaccamento sicuro con i propri
genitori sarà abituato a fidarsi del prossimo e tenderà ad approcciarsi alle
relazioni in maniera più spensierata e fiduciosa. Al contrario, chi non ha
vissuto una solida base affettiva, non ha interiorizzato il sentimento di
fiducia (nei confronti dell’altro e di se stesso) e tenderà a prendere le
distanze da ciò che non può prevedere (Del Vecchio, 2013).
Ma sappiamo che non sempre le cose vanno in questo modo.
Nel momento in cui dobbiamo decidere se fidarci o meno, immaginiamo di sederci
a tavolino con noi stessi e di analizzare ciò che sta avvenendo nell’hic et
nunc.
Sulla base delle esperienze passate possiamo provare a costruire una struttura aperta, solida ma flessibile, ricordandoci che non tutto accade alla stessa maniera e che siamo noi a tirare i fili delle nostre azioni.
Se abbiamo ricevuto innumerevoli delusioni amorose questo non significa che anche le future relazioni andranno male (tranne che io non vada a cercare sempre quel tipo di persona che andrà a confermare la mia paura). Se le mie amicizie tendono a finire senza apparente ragione ciò non comporta che non ci possiamo fidare di nessuno, ma che forse ci sono dei nostri comportamenti che spingono in quella direzione.
Sta a noi diventare consapevoli delle nostre scelte e delle nostre azioni; capire che la fiducia non si basa su statistiche ma è legata a moltissime altre variabili che contribuiscono a consolidare le nostre credenze e ad alimentare le nostre paure, come il contesto, il supporto sociale percepito, l’autostima.
Se la conversazione con noi stessi però ci sfugge di mano e la paura prende il sopravvento vedremo sopraggiungere la cosiddetta Pisantrofobia (o Pistanthrophobia). Con questo termine viene indicata la paura anticipatoria e irrazionale di fidarsi degli altri e di stabilire relazioni intime.
A livelli elevati questa fobia può arrivare a compromettere le normali attività e a ridurre le interazioni sociali.
Ma cosa possiamo fare per non arrivare a questo punto?
Potremmo metterci a tavolino con il noi stessi del passato e creare quella base solida che ci è mancata. Costruire un’impalcatura che trasformi le nostre credenze disfunzionali e renda autonomo il nostro pensiero. Secondo la RET (Terapia Razionale Emotiva) di Ellis, questo ci permetterebbe di interpretare il mondo in maniera attiva e di non rimanere vittime delle nostre idee irrazionali (Del Vecchio, 2013).
Se al contrario il mondo, secondo noi, è una sceneggiatura di Walt Disney non dobbiamo far altro che godercelo… almeno fino alla prossima fregatura!
“Il modo migliore per scoprire se ci si può fidare di qualcuno è di dargli fiducia” (Ernest Hemingway).
Bibliografia
Del Vecchio E., Salcuni S., Di Riso D., Mabilia D., Lis A., (2013). Family and families. Padova, Unipress.
Melli G., Sica C., (2015). Fondamenti di psicologia e psicoterapia cognitivo comportamentale. Firenze, Eclipsi.
Platone, (1998) Fedone. Trad. Nino Marziano, Garzanti.
Fetchenhauer D., Dunning, D., (2009). Do people trust too much or too little? Journal of Economic Psychology 30 263–276.
Rundell, M., (2002). Macmillan English Dictionary for Advanced Learners. Michael Rundell.
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